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L’eredità digitale: cos’è e come va interpretata

Pietro Jarre
Pietro Jarre

Fondatore di eLegacy e Sloweb

La nostra identità digitale è formata da dati che rappresentano un patrimonio immateriale che può essere lasciato in eredità ai membri della nostra famiglia. Parliamo delle modalità con Pietro Jarre, ingegnere e fondatore delle piattaforme eMemory ed eLegacy che operano nel campo della protezione del diritto al possesso dei dati personali.
Pubblicato il 16 Dicembre 2021 | ultima modifica 30 Dicembre 2021

Nel corso della nostra esistenza accumuliamo tanti beni che al momento del trapasso lasciamo ai nostri cari, quelli che la legge definisce eredi. In linea di massima niente va disperso, tutto ciò che ci appartiene viene redistribuito, secondo il nostro volere se abbiamo lasciato un testamento, o per disposizione di legge nel caso venga applicata la cosiddetta “legittima”.
Ma se per i beni mobili, immobili e per i diritti questa è una prassi che si è ormai consolidata nei secoli, c’è tutto un mondo, quello che riguarda l’area del digitale, che non ha ancora una vera e propria regolamentazione e porta così alla nascita di una serie di problemi di vasta portata.
Siamo nel campo di quella che viene definita “eredità digitale”. Ne parliamo con Pietro Jarre, ingegnere, imprenditore e fondatore di due piattaforme – eMemory ed eLegacy – che operano per la protezione del diritto al possesso dei dati personali».

Che cos’è l’eredità digitale?

«L’eredità digitale riguarda il passaggio ai nostri eredi dei beni che abbiamo sui device oppure online. Per essere più chiari, non stiamo parlando del computer o del telefonino, che sono beni materiali e rientrano nell’eredità tradizionale e in ciò che può essere regolato da un testamento. L’eredità digitale riguarda piuttosto ciò che il computer o il telefonino contengono, oppure ciò che attraverso questi strumenti io posseggo e visualizzo sul web, quindi online. Mi riferisco quindi, ad esempio, alle foto di famiglia che ho scattato negli ultimi 20 anni e che conservo sotto forma di file, ma anche a tutto ciò che ho pubblicato sui social network o ai miei investimenti in criptovalute. Rientra in questo tipo di eredità, inoltre, il patrimonio economico che ho accumulato attraverso, per fare un altro esempio, i punti per gli sconti guadagnati con i viaggi aerei – che in America del Nord corrispondono a valori miliardari –, oppure quelli del supermercato o dei sistemi di pagamento che utilizzo ogni giorno».

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Quali beni rientrano in un’eredità digitale?

«Nell’eredità digitale rientrano sostanzialmente tre categorie di beni. I primi sono i valori economici diretti, quelli che la legge protegge con la “legittima”, che stabilisce che alcuni parenti devono ricevere obbligatoriamente una parte del patrimonio ereditario. Si tratta per lo più di conti bancari, polizze assicurative, criptovalute, somme derivanti da campagne di fidelizzazione messe in campo dalle aziende. E ci sono anche le somme legate agli eGames che possono sembrare uno scherzo, ma invece si ritiene che nel mondo muovano qualcosa come 100 miliardi di dollari. Chi muore, in tutti questi casi lascia agli eredi somme che spesso non sono tenute in considerazione. Uno studio neanche troppo recente – e quindi è facile che i valori siano nel frattempo saliti – ha stabilito che mediamente ognuno di noi accumula beni digitali per un valore di 35mila dollari».

Oltre a quelli economici diretti, quali altri valori vi rientrano?

«La seconda categoria ricomprende i valori affettivi. Mi riferisco ad esempio alle immagini su cui sono ritratti i nostri familiari, che si avrebbe piacere restassero in possesso del coniuge o dei figli. Oppure di quelle scattate sui luoghi di lavoro, che potrebbero servire all’azienda per valorizzare il suo patrimonio digitale. Ma rientrano in questo ambito anche le storie, i racconti personali salvati su file, che possono avere un valore affettivo che sarebbe un peccato regalare o disperdere. Infine, la terza categoria è quella più vaga che potremo definire della “coda della cometa”, che comprende tutti i dati che io ho lasciato nel mio passaggio sul web, magari anche a mia insaputa, e che contribuiscono, presi tutti insieme, a formare l’immagine che lascerò di me: i siti che ho visitato, i social network che ho frequentato, le iscrizioni ai siti che ho fatto».

Accanto a ciò che si vuole salvare c’è anche quello che si vorrebbe cadesse nell’oblio…

«Sì, a parer mio ci sono tre diversi modi di guardare al patrimonio digitale. Il primo è quello che riguarda gli oggetti che io voglio destinare a qualcuno, il secondo ricomprende gli oggetti che io voglio scompaiano con me e il terzo sono gli oggetti che voglio continuare a condividere con tutti su internet. Ma il punto non riguarda solo la divisione della torta, riguarda anche la sua grandezza. Chiaro che più imponente è, questa torta, e più ci sarà possibilità di subire un danno economico per gli eredi. Bisogna in sostanza fare in modo che l’impronta digitale sia la più piccola possibile, e questo non solo per ragioni economiche ma anche etiche e ambientali».

Perché bisogna cercare di ridurre la nostra impronta digitale?

«Dal punto di vista ecologico perché si tratta di materiale che si muove sul web e come tale richiede un’attività, quella dei server che gestiscono le infinite quantità di dati in entrata e in uscita, che inquina. Oggi il 60% delle email che riceviamo è spam. Molte newsletter che non abbiamo richiesto e che non leggiamo, finiscono nel nostro cestino virtuale ma per il solo loro semplice circolare hanno procurato un danno ecologico al nostro pianeta. Possiamo dire che un’email che finisce nello spam corrisponde alla produzione di un grammo di CO2, a una goccia di neve che si scioglie nell’Artico. Tutto questo digitale ci fa inoltre perdere un sacco di tempo, ci distrae, riduce la nostra abilità nello stare attenti, la nostra capacità di apprendimento. E bisogna cercare, infine, di non lasciare ai nostri eredi una quantità enorme e ingestibile di pattume».

Come si può organizzare il proprio patrimonio digitale in modo “sano”?

«Bisogna viverlo anzitutto in modo responsabile. Cioè approfittare di tutto ciò che di buono il digitale offre comportandosi da utenti attivi e attenti, che si preoccupano di quello che vedono, che consumano e, soprattutto, che accumulano. Poi pensare al momento in cui non ci si sarà più e mettere bene in chiaro che cosa si vuole tenere, e quindi “donare” ai propri eredi e che cosa invece si vuol “portare via con sé”, cioè fare in modo che nessuno possa impossessarsene. Cosa peraltro non facile, perché se i tuoi parenti stretti hanno le chiavi di accesso al tuo computer e ai tuoi documenti, è facile pensare che prima o poi anche le parti che vorresti fossero gettate siano invece viste, anche solo per curiosità, da chi non dovrebbe».

Come essere sicuri che la propria eredità digitale abbia la destinazione desiderata?

«La soluzione può essere quella di stipulare un contratto “post mortem exequendum” che prevede la nomina di un esecutore testamentario che si occupi, dopo la morte, di dare una destinazione al nostro patrimonio. Sarà lui a suddividere il materiale tra quello da consegnare ai legittimi eredi e quello da eliminare, in modo tale che nessuno lo possa vedere. E sarà lo stesso esecutore, in veste di rappresentante della persona defunta, a chiedere ai gestori di email, social network e contenuti su telefonini e device di consegnare le password per poter accedere ai vari profili. Oggi alcuni gestori consentono un passaggio automatico dei contenuti agli eredi. Una scelta che per certi versi può essere eticamente discutibile, dal momento che viene consentito l’accesso a tutto il materiale in modo indiscriminato, anche quello che probabilmente il defunto avrebbe preferito non rendere accessibile. La funzione dell’esecutore testamentario è proprio quella di evitare che questo accada».

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