Avvocato
Sono poche, ormai, le persone che possono dire di non avere una eredità digitale, di non custodire qualcosa su un proprio device, che sia computer o telefonino o tablet. Beni che per lo più hanno un valore simbolico, personale, affettivo, ma che spesso risultano anche essere preziosi dal punto di vista economico.
Un valore che può assumere un’importanza particolare nel momento in cui lasciamo questa terra, quando da patrimonio personale – ancorché digitale – diviene parte integrante dell’asse ereditario.
Qual è dunque il modo migliore per gestire al meglio la propria eredità digitale? La risposta è affidata all’avvocato Alessandro d’Arminio Monforte, tra i massimi esperti di pianificazione e tutela dell’eredità digitale e autore del primo libro scritto su questa materia.
«Ci sono beni che hanno valore solo per noi, come le nostre email, i messaggi scambiati con gli amici, le tante foto scattate con il telefonino in famiglia o durante i nostri viaggi, i diari che scriviamo e gli scritti personali che lasciamo sulle pagine di Word. E poi c’è una serie infinita di beni che ha un valore patrimoniale, prime tra tutti le criptovalute che sempre più si stanno diffondendo. Ma non solo queste, possono avere un grande valore anche i testi di uno scrittore o di un giornalista, le lezioni o le ricerche di un professore universitario, le immagini digitali di un fotografo professionista, i software creati da uno sviluppatore... Molti sono portati a pensare che si tratti di piccole cose, ma posso assicurare che non è per niente così, a volte si parla di patrimoni ingenti, che meritano una giusta attenzione e gestione».
«Il primo e fondamentale problema è quello del trasferimento di questi beni, perché non sempre è facile avere accesso diretto ai device che li ospitano. L’ostacolo si chiama password, che in questo ambito è l’elemento che crea più problemi: il fatto che debba restare per definizione segreta ne rende difficile il passaggio agli eredi. Perché una password non la puoi scrivere sul testamento, sarebbe come lasciare sul tavolo la chiave della cassaforte, così che chiunque la possa prendere, anche persone che credono di essere legittimate a farlo e invece non lo sono. E se si tratta di una password che permette l’accesso a criptovalute, sempre per restare all’esempio più clamoroso, questo può trasformarsi in un problema di grosse proporzioni».
«Bisogna utilizzare strumenti differenti dal testamento. O, meglio, bisogna utilizzare il testamento insieme ad altri strumenti. Nello specifico, la soluzione può essere quella di stipulare un contratto di mandato post mortem exequendum, un accordo che esiste da sempre e che ben si collega a questa particolare situazione, perché ha la caratteristica di acquistare efficacia a partire dal momento della morte del mandante».
«La persona interessata si rivolge a un soggetto fidato che può essere un avvocato, un notaio, una persona parente o amica, una società che si occupa di gestione delle eredità digitali. È chiaro che ci si rivolge a una persona che si immagina possa sopravviverci e che abbia le competenze adatte a portare a termine un incarico non sempre del tutto semplice. In genere il mandatario assume l’incarico di consegnare le credenziali del defunto a una specifica persona, altre volte si deve occupare della cancellazione dei dati contenuti in un supporto protetto da una password che gli è stata comunicata».
«Certo, le regole della successione sono le stesse anche in questo caso, non cambia nulla. Per questo, nel caso di trasmissione di beni a contenuto patrimoniale (quali le criptovalute, le foto professionali, i progetti di un architetto, le opere di un artista digitale, ecc.) il mandato post mortem exequendum deve comunque essere affiancato da un documento, come il testamento, mentre nel caso di trasferimenti di patrimoni con valore esclusivamente personale è sufficiente la sola predisposizione di tale contratto. Non dimentichiamoci inoltre che nel nostro ordinamento sono vietati i patti successori, cioè lo strumento contrattuale non può essere utilizzato per disporre del proprio patrimonio dopo la propria morte. Il mandatario è dunque un “tramite” che permette agli eredi di accedere ai beni digitali o che si occupa di eliminare questi beni nel caso in cui il mandante gliel’abbia espressamente chiesto».
«Può essere pagato, nel caso si tratti di un professionista o di una società specializzata, ma può anche svolgere il tutto a titolo gratuito. Che il corrispettivo ci sia o meno, dipende dall’accordo che viene firmato tra i due contraenti».
«Dal punto di vista giuridico non c’è alcun obbligo. È però opportuno farlo, perché se la volontà è quella di lasciare dei beni ai propri eredi, è importante far sapere che quei beni esistono. Se non informiamo i nostri eredi dell’esistenza di un patrimonio digitale c’è il rischio che questo vada comunque perso nel caso in cui, ad esempio, il mandatario non dovesse svolgere il suo compito perché impossibilitato a farlo o anche solo perché non ha dato la dovuta importanza alla faccenda, situazione che si può verificare nel caso in cui si tratti di un parente o di un amico».
«Certo, la normativa è la stessa che regola l’eredità “tradizionale”. È solo l’oggetto dell’incarico che è diverso. Tutto ciò che gli sta attorno, diritti e doveri delle parti in causa, resta invece del tutto invariato».
«In realtà il mandatario dovrebbe preoccuparsi esclusivamente di portare ad esecuzione la volontà del defunto – consegnare le credenziali di accesso oppure distruggere i beni digitali – e lasciare che le questioni di eredità siano avanzate da eventuali eredi che si considerano penalizzati dalle decisioni del defunto. È chiaro però che se la figura del mandatario è ricoperta da un professionista, questi qualche attenzione in più la può mettere e può decidere di non consegnare gli accessi fino a quando non è sicuro che finiscano nelle mani giuste».