Aspetti legali

Perché pensare alla propria eredità digitale. Tra etica e filosofia

Davide Sisto
Davide Sisto

Filosofo, esperto in tanatologia

Le tecnologie digitali tendono a modificare il nostro rapporto sociale, culturale e anche personale con il lutto. Una situazione che si va a sommare al fatto che a partire dallo scorso secolo nell’Occidente si sta sempre più rimuovendo il discorso pubblico sulla morte.
Pubblicato il 21 Dicembre 2021 | ultima modifica 30 Dicembre 2021

L'eredità digitale è anche, per alcuni aspetti, un modo per vincere la morte, per non doverla affrontare. Come sottolinea Davide Sisto, filosofo, specializzato in tanatologia (studio della morte dal punto di vista, appunto, filosofico): «Da decenni siamo ormai abituati a trattare la morte come un tabù: è un argomento di cui si deve parlare il meno possibile, se si esclude la narrazione delle morti dei personaggi famosi, che finiscono sui giornali e nelle televisioni. Una situazione che ha tutta una serie di effetti sulla nostra capacità di elaborazione del lutto».

Quanto i social network contribuiscono a modificare il nostro rapporto con la morte?

«I social network sono nati per creare relazioni interpersonali. Ma si è sottovalutato il fatto che le persone muoiono e di conseguenza oggi viviamo da una parte il tabù della morte e cerchiamo di parlarne il meno possibile e dall’altra abbiamo questi luoghi virtuali che raccolgono i messaggi di decine di milioni di utenti deceduti. Una enorme "eredità digitale" e un fenomeno destinato ovviamente a crescere: si calcola che intorno al 2070, se ci saranno ancora questi social media, il numero degli utenti deceduti sarà superiore a quello degli utenti in vita. Tutto ciò genera una serie di problematiche cui non avevamo finora fatto caso. Penso in particolare a chi ha subito la perdita di una persona cara, che si ritrova molto probabilmente ad affrontare la difficoltosa elaborazione del lutto avendo quotidianamente davanti a sé i diversi profili social della persona deceduta. Una situazione che può essere considerata sotto certi punti di vista positiva e sotto altri, al contrario, negativa».

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Quali sono gli aspetti positivi della “sopravvivenza” del defunto sui social?

«L’aspetto positivo è dovuto al fatto che mai come ora nella storia dell’umanità c’è stato un quantitativo di dati tali da permettere di mantenere un ricordo della persona scomparsa, creandone una memoria in grado di mantenersi quasi intatta nel tempo. Parliamo di testimonianze scritte, audiovisive, vocali e via dicendo. Un aspetto positivo per chi ama conservare i ricordi delle persone che non ci sono più».

E in che cosa consiste, invece, l’aspetto negativo di questa eredità digitale?

«Sta nel fatto che è diventato molto più difficile elaborare il lutto, perché si percepisce meno quel distacco che in società prive di questi moderni strumenti era più facile da raggiungere, con il rito funebre che era un momento di passaggio e aveva la funzione di rappresentare la separazione ufficiale da colui che è morto. Tutto il materiale presente sui social e sulle applicazioni con cui si possono scambiare messaggi oggi “parla” e rende ovviamente più difficoltoso il processo salubre della separazione».

Come si può considerare il desiderio di andare a leggere i messaggi scambiati con la persona defunta quando questa era ancora in vita?

«C’è una percentuale molto alta che ammette di continuare a mandare messaggi alle persone care morte, quindi non solo di andare a leggere quelli scambiati con essa in passato. Da una parte non c’è niente di male, è solo la modernizzazione di un atteggiamento che caratterizza da sempre l’umanità, quella di parlare con i morti. Non ci stupiamo quando sentiamo una signora anziana che, davanti alla tomba del marito, parla con lui. L’aspetto differente è che quando questa donna torna a casa può continuare a parlare con il marito defunto nella sua mente, ma ha di sicuro meno occasioni di mantenere vivo questo tipo di collegamento. La persona resa fragile dal lutto che invece ogni tre minuti va a leggere e scrivere messaggi collegati al defunto ha la continua tentazione di entrare in quel profilo e rischia di rimanerne un po’ imprigionata. Dipende ovviamente dal grado di fragilità, consapevolezza e razionalità di ognuno di noi, ma è chiaro che tutto ciò può complicare sensibilmente il rapporto con i nostri morti».

La voglia di lasciare “tracce” del proprio passaggio, che sopravvivano alla morte, esiste da sempre. Che cosa è cambiato, oggi?

«La prima differenza sta nel fatto che chi utilizza molto i social oggi accumula un quantitativo di dati e informazioni senza precedenti. Da qui deriva che i nostri profili non sono semplici testimonianze della nostra vita ma rappresentano veri e propri prolungamenti della nostra identità, la nostra eredità digitale, appunto. Questo significa che teoricamente qualcuno potrebbe appropriarsene per terzi fini, come le cronache peraltro dimostrano essere già accaduto, più volte, in passato. Lasciamo una serie infinita di materiali che chiunque può scaricarsi sul proprio computer e fondamentalmente fare propri».

Come gestire quella che potrebbe un giorno diventare la nostra eredità digitale?

«Bisogna anzitutto avere sotto controllo tutto ciò che abbiamo immesso nella rete. E parlarne con le persone care – il coniuge, i genitori, i figli, ecc. – spiegando loro che cosa vorremmo si facesse di questi dati nel caso di un evento luttuoso che ci riguarda. Questo aiuta a evitare che a livello familiare sorgano contrasti, diatribe che a volte giungono anche davanti a un giudice. Spesso la soluzione può consistere nell’individuare un gestore esterno che si occupi di questa particolare eredità seguendo le volontà del defunto».

In assenza di indicazioni, come si dovrebbero comportare i parenti sopravvissuti con questa eredità digitale?

«È molto difficile dare un consiglio che sia valido per tutti. Quando non ci sono indicazioni, conoscendo la persona e le sue caratteristiche bisognerebbe ragionare e rispettarne la memoria nel miglior modo possibile. Sul piano etico direi che può valere sia il discorso di considerare il computer della persona scomparsa come se non esistesse più, come se fosse morto insieme a lei, sia il voler recuperare tutto il materiale che può contribuire a ricordarla. Continuo a pensare che l’ideale sarebbe avere un'idea, anche se vaga, di quello che sarebbe stato il desiderio del defunto».

Se il desiderio è quello di scomparire del tutto?

«Può sembrare una banalità dirlo, però forse siamo nell’epoca più problematica nei confronti del diritto all’oblio, nel senso che chiunque utilizzi la dimensione online volontariamente o involontariamente lascia moltissime tracce destinate a “restare in giro” a tempo indeterminato. Chi vorrebbe lasciare meno tracce digitali possibili dopo la sua morte dovrebbe cominciare a cercare di trovare dei modi per farle sparire man mano. Capisco però che il mio è un commento un po’ superficiale, perché è estremamente difficile, per un singolo, riuscire ad attuare questa scomparsa».

La paura può essere anche quella di lasciare una memoria di sé fuorviante e poco attinente alla realtà…

«Il rischio che il “digitale”, una volta che non ci siamo più, deformi la nostra vera essenza è più che reale. Ma questo può accadere anche quando siamo in vita: quante amicizie o rapporti cordiali si rompono a causa di comportamenti che emergono sui social? Perché nella vita di tutti i giorni, quella offline, quando siamo con una persona sappiamo che cosa dire o fare per non offenderla e siamo maggiormente capaci di evitare situazioni che possano creare una tensione reciproca. Online questo “freno” non c’è, ci si lascia andare di più dal punto di vista emotivo e si riescono a esprimere opinioni anche forti, che di persona non si avrebbe la forza di affrontare. Se ci accorgiamo che il nostro caro che non c’è più – da noi considerato persona buona e rispettosa – passava il suo tempo ad augurare sui social la morte di “tizio” o “caio”, si può creare in noi un corto circuito psicologico non indifferente, che ci può portare a riconsiderare la figura dello scomparso. Ma forse questa persona un po’ se l’è cercata, no?».

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