Psiche

Il lutto nei bambini: come aiutarli?

Dott. Danilo Messina
Dott. Danilo Messina

Psicologo e psicoterapeuta

Con lo psicoterapeuta Danilo Messina vediamo come gli adulti possono aiutare i più piccoli a raccontare il lutto per iniziare a elaborarlo con maggiore serenità.
Come aiutare un bambino in caso di lutto
Pubblicato il 15 Dicembre 2021 | ultima modifica 20 Maggio 2022

Il lutto di una persona vicina, soprattutto quello di un genitore, di un fratellino o una di sorellina è quanto di peggio possa capitare a un bambino.

L’aspetto che rende ancor più tragica una situazione già di per sé difficile da sostenere è che, stante la sua tenera età, il bambino non è in grado da solo di comprendere e di vincere le emozioni, le sensazioni e i sentimenti che si generano anche in modo inconscio nella sua mente. Per farlo ha necessariamente bisogno dell’aiuto di un adulto.

Inoltre, il grado di elaborazione del lutto nell'infanzia varia, ovviamente, in base all’età del bambino e ogni periodo, dalla nascita all’adolescenza, ha le proprie peculiarità di cui bisogna tenere conto quando ci si pone l’obiettivo di aiutare il piccolo a superare questo momento di difficoltà. Ne parliamo con Danilo Messina, psicoterapeuta psicoanalitico, modello Tavistock.

Che cosa significa “aiutare un bambino a superare un lutto”?

«Uno dei meccanismi importanti utili a gestire un lutto nei bambini è la capacità di riuscire a dare un senso a quanto sta accadendo. Questo vale già per gli adulti e, dunque, ancor più per i bambini, che hanno una maggiore difficoltà a farlo perché in loro c’è una minore capacità di simbolizzare. Per questo, una delle strade che si percorrono quando si tratta di aiutare un bambino a elaborare il lutto è quella di applicare una terapia in cui si possa disegnare, simbolizzare e cercare di dare una forma al dolore. Solo quando il bambino è più cresciuto, quasi adolescente, l’aiuto più adeguato può provenire invece dall’uso della parola».

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Quale deve essere il ruolo dell’adulto? Quello di “spiegare la morte”?

«No, non si può spiegare la morte perché il lutto è la peggiore delle sofferenze proprio perché non può essere spiegata. Quello che bisogna fare è piuttosto cercare di dare una mano per rendere questo dolore più tollerabile. Un risultato che può essere ottenuto indicando dove si trova ora la persona cara che se n’è andata. In cielo, in Paradiso o in qualche altro posto… non è solo una questione culturale o religiosa, si tratta di aiutare il bambino a immaginarsi un luogo in cui questa persona “vive” ancora, così da scacciare l’idea della scomparsa, almeno fino a quando non sarà capace di darsi autonomamente una propria spiegazione».

Il bambino va aiutato subito? C’è il rischio che il lutto nei bambini non venga elaborato e provochi effetti fino all’età adulta?

«Nel lutto dei bambini, l’aiuto deve essere portato il prima possibile, sempre nel rispetto dell’età del piccolo. Il primo supporto viene fornito dalla famiglia, un’eventuale terapia esterna interviene solo nel momento in cui i genitori o le persone di riferimento dovessero sentire di non riuscire più a fare da soli. Questo può accadere quando anch’essi sono sconvolti per la situazione, oppure quando non hanno un’idea di quello che possono fare e allora chiedono aiuto a professionisti».

La morte deve essere il più possibile tenuta nascosta ai bambini?

«No, bisogna parlarne subito, perché la scelta peggiore è quella di negare l’evento luttuoso, però bisogna farlo nel modo adeguato a chi ci sta di fronte. Spesso, infatti, i genitori pensano di difendere i propri figli nascondendo loro il lutto e, ad esempio nel caso della scomparsa di un fratellino o di una sorellina, non portandoli al funerale “perché potrebbe intristirsi troppo”. È vero che un’esposizione troppo diretta alla persona che è morta potrebbe essere percepita come intollerabile, ma è indubbio che se da una parte ci potrebbe essere un intristimento, dall’altra si fornirebbe al piccolo una prima occasione per elaborare il dolore. Bisognerebbe essere capaci di rimanere molto vicini (anche fisicamente) e disponibili in questi momenti, perché il primo conforto arriva dal contatto fisico, da un tenersi forti e stretti come nell’abbraccio. La negazione può avere un effetto non positivo perché il bambino ha comunque la percezione di vivere sentimenti legati alla perdita e non riesce a darsi una motivazione, una spiegazione. Una condizione che potrebbe far sorgere in lui sensi di colpa. Forse, è portato a pensare, nessuno gli parla di quello che è successo per motivi che non si possono dire o, addirittura, perché è stata colpa sua. Sono fantasie strane, particolari, ma sono molto più frequenti di quanto si pensi».

Qual è la forma migliore per raccontare il lutto ai bambini?

«Anche in questo caso come raccontare il lutto ai bambini dipende dall’età che hanno. Il bambino in età di latenza, quando cioè frequenta le scuole elementari, si intristisce e dovrebbe essere già capace di affrontare il discorso della morte. Diverso è il discorso per il bambino più piccolo, per cui possono andare bene le favole e i disegni. Oppure può essere sufficiente utilizzare modalità di contenimento molto basilari come l’abbraccio, il rassicurare il piccolo facendogli sentire che esiste un sentimento positivo, basato sul “voler bene”. L’obiettivo deve essere quello di far sentire sicuro il bambino, così da poter un poco alla volta inserire frasi che sono legate alla perdita. Non ogni momento è adatto per fare questo, qui entra in gioco la sensibilità del genitore o di chi è vicino al bambino di capire quando affiora un sentimento di tristezza che deve essere supportato. Questo suo cambiamento interiore, il piccolo lo può segnalare con messaggi di varia natura, che possono andare dal sonno disturbato e caratterizzato da incubi, alle difficoltà dimostrate a scuola o, anche da un comportamento anomalo all’interno dell’ambiente della scuola dell’infanzia».

Come può l’adulto fare proprio il malessere del bambino?

«Il fatto che un bambino esprima, in modo consono alla sua età, un malessere e che questo venga elaborato nella mente del genitore o da chi gli è vicino e venga restituito “bonificato” si chiama “processo di rêverie”. È lo stesso meccanismo che lega la madre al neonato che piange. All’inizio della vita, il pianto non ha un significato preciso, esprime un disagio, ma non ne specifica in modo dettagliato la natura. Prendendo in braccio il figlio, la mamma accoglie dentro di sé il suo dolore e comincia a dare una forma al suo disagio. Nel tentativo di scoprire l’origine del pianto, la madre parla con il bambino attivando una serie di risposte comportamentali che variano a seconda dell’atteggiamento materno. In pratica, il bambino impara a usare un pianto anziché un altro a seconda del tipo di disagio che ha. Ciò significa che la mamma è riuscita a fare un’operazione di rêverie nei confronti del figlio. Come in una danza, nella relazione i due si muovono in uno scambio in sintonia. Questo è lo stesso meccanismo di affinità che si crea nell'elaborazione del lutto nei bambini, quando il piccolo è colpito da un disagio e non è in grado di esprimere a voce che cosa stia provando. Possiamo dire che la natura ci viene incontro, mettendo in campo meccanismi fisici e mentali che si sono sempre più affinati nel tempo, di pari passo con l’evoluzione dell’uomo».

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